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Protesi d’anca, come scegliere quella più adatta?

Per curare l’artrosi d’anca è spesso necessario un intervento di protesi. Esistono diverse tipologie di protesi che si differenziano per i materiali utilizzati e le caratteristiche che presentano: protesi di rivestimento, a stelo corto, a stelo lungo, a stelo cementato, modulari o di revisione. Inoltre, quella che può essere indicata per un paziente, può non essere la migliore scelta per un altro. Ne abbiamo parlato con il dottor Nicola Santori, direttore di Anca Surgical Center.

L’artrosi d’anca è una patologia degenerativa cronica che può colpire chiunque, compresi i soggetti più giovani. Esistono stili di vita e terapie che possono rallentare la degenerazione articolare, ma in molti casi, quando l’artrosi è in fase avanzata, vi è la necessità di ricorrere a una protesi d’anca. «La protesi migliore – spiega il dottor Nicola Santori, direttore di Anca Surgical Center – è quella più adatta per il paziente. Ogni protesi, infatti, presenta caratteristiche, vantaggi e svantaggi differenti. Ad esempio, le protesi di rivestimento tanto pubblicizzate negli anni Novanta consentono un risparmio osseo, ma hanno come punto debole una rapida usura. La protesi d’anca – precisa lo specialista – è inevitabilmente sottoposta a sollecitazioni e quelle di rivestimento, realizzate con interfacce metallo-metallo, quando si usurano liberano detriti e ioni metallici, che a loro volta provocano danni sistemici e locali».

Protesi d’anca, il problema dell’usura a lungo termine

Purtroppo nessun materiale può garantire che la protesi d’anca sia esente da usura. Molto, ovviamente, dipende anche dal tipo di attività a cui viene sottoposta la protesi ed è anche per questo che ogni paziente deve essere valutato singolarmente nella scelta della protesi più adatta. «Nel paziente attivo, sportivo e soprattutto di giovane età – continua il dottor Nicola Santori – la protesi ottimale è la protesi mini invasiva a stelo corto, con risparmio del collo femorale ed interfaccia a bassa usura in ceramica. Questa al momento è statisticamente la migliore combinazione per garantire al paziente una completa ripresa della vita attiva ed una lunga durata della protesi».

Quali sono le differenze tra le diverse tipologie di protesi d’anca?

Le protesi d’anca si differenziano fondamentalmente in base a tre parametri: la dimensione della protesi, la dimensione della testa femorale, l’interfaccia articolare che determina l’usura nel tempo. «Per quanto riguarda le dimensioni della protesi – spiega il dottor Santori – si può parlare di protesi di rivestimento che appunto rivestono la superficie ossea senza asportarla, di mini protesi, ossia di impianti di piccola dimensioni che risparmiano il canale midollare del femore e trasmettono il carico in modo para fisiologico, ed infine di protesi tradizionali fissate o meno con il cemento che occupano la metà prossimale alta del femore operato».

Anche la dimensione della nuova testa femorale protesica è importante. La testa del femore naturale è di grandi dimensioni e questo contribuisce enormemente alla stabilità dell’anca. «Nel sostituirla – continua l’esperto – la dimensione della testa inevitabilmente scende a diametri inferiori, tranne nell’ipotesi del rivestimento. In passato, per limitare l’usura si usavano teste di piccolo diametro, 22 millimetri, e questo determinava un significativo rischio di fuoriuscita, cioè di lussazione della protesi. Oggi, invece, l’incredibile miglioramento qualitativo dei materiali consente di utilizzare teste da 36 millimetri, con una stabilità quasi uguale a quella delle teste naturali».

Infine, per poter comprendere fino in fondo le differenze tra le varie protesi, va considerato il materiale che le compone, in quanto è quello che sopporta le sollecitazioni durante i movimenti. Questo parametro è di gran lunga il più importante per determinare la sopravvivenza nel tempo di una protesi d’anca. «Una volta fissata, una protesi si scolla e fallisce, in oltre il 95% dei casi, solo se interviene una usura della interfaccia con liberazione di detriti.  È proprio l’azione dei detriti – precisa Santori – che il nostro organismo non riesce a digerire, che scolla la protesi, riassorbe l’osso peri protesico, porta alla mobilizzazione della protesi e, infine, alla necessità di intervenire con un intervento di revisione. Ogni accoppiamento all’interfaccia ha punti di forza e punti di debolezza. Certo è che l’accoppiamento metallo/metallo, quindi quello delle protesi di rivestimento, ha dato negli ultimi anni le peggiori delusioni, in quanto responsabile di tassi di fallimento elevatissimi e del prodursi di metallosi che rendono anche l’intervento di revisione estremamente complesso. Oramai, in ogni caso, l’utilizzo metallo/metallo e delle protesi di rivestimento è quasi del tutto abbandonato. L’introduzione dei polietileni reticolati di ultima generazione – conclude il direttore di Anca Surgical Center – quando accoppiati con teste in ceramica o metallo ceramizzato da 36 millimetri, hanno mostrato tassi di usura e di fallimento quasi inesistenti ad oltre 14 anni di risultati clinici».

 

 

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